La locazione
Il mercato immobiliare italiano ha dovuto fare i conti per oltre trent'anni, dal blocco dei fitti degli anni Sessanta alle norme sull'equo canone, entrate in vigore nel 1978 e rimaste invariate fino al 1992, con leggi che di fatto disincentivavano la locazione. Quando un proprietario non ha convenienza ad affittare secondo le leggi o cerca di vendere la casa o cerca di aggirare le leggi; quando un inquilino non trova chi gli affitta la casa a prezzo di legge appena può la casa se la compra.
Ora la situazione è cambiata. Nel 1992 i cosiddetti "patti in deroga" sono riusciti a scardinare uno degli aspetti più controversi dell'equo canone, l'obbligatorietà di affittare a canone stabilito per legge. Con la legge 431/98 alcuni aspetti fortemente vincolistici dell'equo canone sono stati aboliti e il proprietario può scegliere se affittare senza nessun vincolo, purché il contratto abbia una durata minima di quattro anni rinnovati automaticamente alla scadenza, oppure se locare a un canone concordato a livello comunale tra le associazioni di proprietari e inquilini, ottenendo in cambio la possibilità di una durata del contratto ridotta (tre anni più due di rinnovo automatico) e, soprattutto, la possibilità di accedere a sostanziosi sconti fiscali. La legge ha vivacizzato il mercato e oggi nelle grandi città (dove la richiesta di locazione è percentualmente più forte) l'offerta è tornata a crescere e riguarda, anche se in quota modesta, immobili di un certo pregio. Un contratto di locazione però, anche con le nuove norme, fa nascere un rapporto che con una certa frequenza dà adito a litigi e incomprensioni tra proprietario e inquilino, dando lavoro ad avvocati e giudici. Per questo, prima di cercarsi una controparte, sia il proprietario sia il potenziale inquilino devono valutare molto bene con chi si ha a che fare e, prima di sottoscrivere un contratto complesso come quello di locazione, pesarne il contenuto parola per parola
La legge sulle locazioni prevede quattro tipi di locazione: libere, a canone concordato, per uso transitorio e per studenti universitari. L'ipotesi di gran lunga più frequente però è la prima. Proprietario e inquilino si accordano liberamente sul canone e il contratto dura quattro anni tacitamente rinnovati per altri quattro.
Quella della durata è l'unica prescrizione tassativa della legge; se le parti si accordano per durate inferiori il contratto non è nullo ma vengono annullate le pattuizioni riguardanti il canone, che viene ricalcolato secondo le regole dei contratti concordati. Non è un vezzo dire che i contratti durano quattro anni più quattro invece che otto. Nella realtà dopo i primi quattro anni (periodo minimo di durata) potrebbe verificarsi una delle 7 condizioni previste dall'art. 3 della legge 431/98 per cui il proprietario può chiedere di liberare l'alloggio. Queste sono:
- il locatore o un suo familiare entro il secondo grado hanno bisogno dell'immobile per viverci o per svolgervi un'attività lavorativa;
- il locatore svolge un'attività di utilità pubblica e offre in cambio all'inquilino un altro immobile idoneo;
- l'inquilino ha la piena disponibilità di un alloggio libero ed idoneo nello stesso comune;
- l'immobile è compreso in un edificio gravemente danneggiato che debba essere ricostruito o del quale debba essere assicurata la stabilità e la permanenza dell'inquilino costituisce un ostacolo al compimento di indispensabili lavori;
- l'immobile si trova in uno stabile del quale è prevista l'integrale ristrutturazione;
- l'inquilino non occupa continuativamente l'immobile senza giustificato motivo;
- il locatore intende vendere l'immobile a terzi e non ha la proprietà di altri immobili ad uso abitativo oltre a quello adibito a propria abitazione.
Al di fuori delle sette ipotesi le locazioni durano 8 anni. Si rinnovano, alle stesse condizioni, per ulteriori 4 anni, se non viene data comunicazione di disdetta del contratto mediante raccomandata, con avviso di ricevimento e con un preavviso di almeno sei mesi. La disdetta è quindi essenziale per interrompere il contratto o anche per rinegoziarne gli aspetti economici se si vuole intrattenere il rapporto con il medesimo inquilino. Nella settima ipotesi all'inquilino va riconosciuta la prelazione; ciò significa che il proprietario deve comunicare all'inquilino la sua intenzione di vendere e il prezzo che intende ricavare. Se l'inquilino accetta, compra, se non accetta il proprietario può vendere a chi vuole ma a un prezzo non inferiore a quello proposto all'inquilino. Se non viene effettuata la comunicazione oppure se il proprietario vende a un prezzo inferiore, l'inquilino entro un anno dalla trascrizione del rogito, può subentrare all'acquirente al prezzo dichiarato sul rogito. Il diritto di prelazione non scatta se l'appartamento è in un edificio di proprietà unica e il proprietario vende in blocco. Ci siamo soffermati su questi aspetti perché sono le uniche disposizioni veramente obbligatorie della legge; per il resto, proprietario e inquilino possono concordare le condizioni che più ritengono opportune. Questo significa che il contratto può essere tranquillamente sbilanciato a favore del proprietario o a favore dell'inquilino. Perciò non bisognerebbe mai firmare acriticamente un prestampato come quelli liberamente in vendita nei negozi specializzati. Al contratto andrebbe allegato un verbale di consegna e, soprattutto, la tabella di ripartizione delle spese di gestione dell'immobile. I criteri genericamente indicati dal codice civile, agli art. 1576 e1609, che attribuiscono all'inquilino l'onere delle spese di manutenzione ordinaria e di piccola entità, non sono sufficienti a precisare chi debba pagare che cosa. La cosa migliore è indicare con precisione minuziosa come dividere le spese e accordarsi su tutto, fatto salvo che le spese di straordinaria manutenzione (il tetto, la facciata, ecc) rimangono in genere a carico del proprietario. A proposito di spese straordinarie, il contratto può (attenzione: è una facoltà, non un obbligo) contenere una clausola, ripresa dal vecchio equo canone, per cui il proprietario ha diritto di richiedere, ogni volta che affronti una spesa straordinaria, un aumento del canone annuo pari all'interesse legale (oggi è il 3%) sul costo sostenuto. Il proprietario ha anche la possibilità di chiedere un incremento annuo del canone che lo ripaghi dell'inflazione. Nella vecchia normativa il livello massimo di incremento annuo era pari al 75% dell'indice Istat del costo della vita per operai e impiegati. Con le nuove norme si può arrivare anche al 100% o, addirittura, scegliere altri parametri per calcolare l'incremento, se li si specifica chiaramente nel contratto. Le due clausole che abbiamo segnalato di per sé non sono né eque né inique: semplicemente sono aspetti su cui mettersi d'accordo. Meglio pesare le parole del contratto prima di firmarlo che andare dopo da un avvocato per farle interpretare.